CHI SIAMO

Scene dalla Soffitta presenta la terza edizione del laboratorio di scrittura critica incentrato sugli spettacoli della stagione 2010 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti.
Questo blog, realizzato da studenti della Laurea Magistrale in Discipline dello Spettacolo dal vivo dell'Università di Bologna con l'aiuto e la supervisione di Massimo Marino,
contiene recensioni, approfondimenti, cronache teatrali e tanto altro...

Vuole essere una finestra sul mondo del teatro: perciò chiede a voi lettori di partecipare con commenti,
recensioni, reazioni.

Buona lettura!

DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Maria Pina Sestili

WEB Elena Cirioni

SCRIVONO: Elena Cirioni, Marta Franzoso, Lilian Keniger, Elina Nanna, Ilaria Palermo, Maria Pina Sestili, Giulia Taddeo, Laura Tarroni, Futura Tittafferante, Maria Claudia Trovato.

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dms dell'Università di Bologna.

venerdì 29 ottobre 2010

Premio Giornalistico di Critica Teatrale Lettera 22

Giulia Taddeo, membro della redazione di questo blog, ha vinto il Primo Premio del concorso di Critica Teatrale Lettera 22 con la seguente motivazione:

perché ha una scrittura partecipe e un immediato procedimento
ambientativo, uno stile d'osservazione poetica e una capace vena
umana, uno scetticismo in forma d'acuto retrogusto stroncatorio e
un'allergia all'autoreferenzialità, un elastico rimando ad
altri codici interpretativi e una sensibilità anche ironica, un
rapporto ravvicinato con l'inquietudine e un'inclinazione
costante e sapiente al ritmo di domande vere senza mai risposte false.


Ecco gli articoli del concorso:


Racconti di un critico incerto. Episodio 1: Oper opis

Öper Öpis
regia Zimmermann & De Perrot
visto al Napoli Teatro Festival

Confesso che l’idea di avere un bambino come vicino di poltrona a teatro non costituisce per me un pensiero molto allettante. Eppure nel caso di Oper opis, con la regia del duo svizzero Zimmermann-De Perrot, la vicinanza di un ragazzino non più che decenne mi è stata molto utile. In che modo? Per capire i meccanismi con cui lo spettacolo tentava di far presa sullo spettatore, probabilmente.
Se penso ai momenti in cui sentivo il mio vicino emettere gridolini di stupore o ridere divertito, mi vengono in mente le gag comiche che puntellano l’azione scenica, il ricorso all’illusionismo, oltre ai funambolismi dei cinque acrobati di questo circo spettacolare e con vocazioni poetiche.
E’ a questo punto che il mio sguardo interagisce con quello del mio vicino.
Tre paroline magiche turbinano nella mia testa.
Prima: disequilibrio. L’intera azione, salti mortali compresi, si svolge su una grossa pedana basculante che occupa quasi l’intera area scenica. Come non pensare alla nobile riflessione teatrale che fa del disequilibrio uno dei principi-base del movimento scenico e della sua efficacia? Ma, erudizione a parte, è evidente che tale situazione di precarietà tenga sulle spine gli spettatori.
Seconda: corpi. I protagonisti dello spettacolo diventano corpi-macchina (perfetti tecnicamente), corpi-oggetto (letteralmente indossando tavole di compensato, specchi, ecc…), corpi comici, corpi-clichè (come nelle sequenze coreografate in stile aerobica anni ’80).
Terza (che ne prevede anche un’altra): gioco e sogno. Per fare entrambe le cose è necessario qualcuno che giochi e che sogni. Di chi si tratta? Di Zimmermann e De Perrot, naturalmente.
Sembrano due bambini che giocano a creare immagini viste solo in sogno, oppure, il che è lo stesso, che sognino di giocare con creature fantastiche.
L’uno realizza dal vivo la tessitura sonora, l’altro interagisce con i cinque stralunati interpreti, quasi fossero giocattoli a misura d’uomo sbucati da un mondo fantastico.
E’ però una piccola immagine che mi si imprime nella memoria in tutta questa straordinaria macchina di voli, lustrini e trucchi da mago. E’ De Pierrot che indossa, tipo casco integrale, una cassa acustica. Un quadro surrealista. Ma di un surrealismo edulcorato. Perché se Breton e compagni stanavano le forze oscure dell’inconscio per riprodurle sulla tela, in Oper opis il sogno prende forma senza mai venarsi di inquietudine.
Inquietudine sublime però, che avrebbe trasformato un circo mirabolante in una poesia di movimento.


Racconti di un critico incerto. Episodio 2: Elettra

Elettra. Biografia di una persona comune
di Nicola Russo / tratto dalle parole di Elettra Romani / elaborazione drammaturgica Nicola Russo e Sara Borsarelli / regia Nicola Russo
visto al Napoli Teatro Festival

Inconfondibile il dialetto romano. Talvolta strumento di facile comicità per attori mediocri, talaltra cifra distintiva di autentici artisti della risata. C’è però un caso in cui il romano (o romanesco che dir si voglia) assume un sapore diverso, amaro. E’ quando a parlarlo sono le donne. Non mi riferisco alle ventenni con il cellulare in una mano e il pc nella valigetta, parlo delle signore che hanno conosciuto la guerra, la miseria, i sacrifici. E’ il modo di parlare delle nonne o di alcune zie un po’ attempate: parole profondamente attaccate alle cose cui si riferiscono, intrise delle sofferenze vissute, ma sempre velatamente ironiche, quasi non volessero indulgere in sentimentalismi.
Elettra. Biografia di una persona comune. studio# 1 consiste proprio nell’incontro con una di queste donne: Elettra Romani, subrettina e attrice d’avanspettacolo romana. Un nome da tragedia greca e una storia fatta di abbandoni, di sacrifici e di un successo artistico che non è mai arrivato completamente.
Perché iniziare a parlare di questo spettacolo con una lunga e sentimentale digressione sulle caratteristiche di un certo dialetto? Probabilmente perché la protagonista indiscussa di questo studio è la voce dialettale appena descritta: quella di Elettra, della quale si ascoltano alcuni stralci registrati, ma anche quella dei due attori, Nicola Russo e Sara Borsarelli, che si fanno unico io narrante delle vicende della protagonista. Parlano in vece di Elettra, insomma, non imitandola né allontanandosi radicalmente da essa, ma conservando, e mirabilmente, il cuore pulsante del suo racconto orale. Ne rispettano il ritmo e trasformano le parole in un magma sonoro che ribolle di vita.
Nicola e Sara, due attori come più diversi non potremmo immaginarli: lui, viso da bambino, gambette agili e scattanti; lei, felina, voce roca, passionale. Nel corso dello spettacolo, quando Nicola diventerà progressivamente Alfonso Tomas (marito di Elettra e anch’egli artista del varietà), la femminilità di Sara–Elettra emergerà in tutta la sua carnale potenza.
E’ un teatro povero il loro, fatto di un paio di scarpe col tacco e di canzoncine da avanspettacolo cantate senza musica. Poesia delle piccole cose, forse. La capacità di aprire una finestra su certo teatro di ieri, grosso baraccone fatto di glorie minute, che fagocita le miserie individuali sotto lustrini e paillettes.

Racconti di un critico incerto. Episodio 3: Guruguru
Guruguru
di Ant Hampton
visto al Napoli Teatro Festival

“Mi chiamo Cicci. Fino a tre anni fa ero un attore, ma il panico da palcoscenico mi paralizzava. Non mi faceva vivere né esibire. Ecco perché da allora vivo con un paio di cuffiette nelle orecchie 24 ore al giorno. Ne ho bisogno. Ho bisogno di sentire una voce che mi dica cosa devo fare”. Mi è capitato di pronunciare queste e altre frasi nel corso di Guruguru, esperimento di “auto-teatro” di Ant Hampton. Ci ha provato lo spettacolo a farmi credere di essere un'altra persona e, soprattutto, di non riuscire a pensare, a dire e a fare niente senza che un volto proiettato su uno schermo e una voce registrata mi dessero istruzioni. Come? Per 50 minuti ti trovi seduto con altre 4 persone, ognuna con un nomignolo fittizio e con indosso un paio di cuffiette da cui ascoltare una voce che in ogni istante ti dice cosa devi fare. Insieme fornite delle indicazioni affinché compaia su un monitor l’immagine di un volto (il guru del titolo) che tenta, goffamente, di psicanalizzarti, fin quando ti fa dire che senza quella faccia e senza le tue cuffiette non riesci a pensare.
E’ difficile non capire dove l’operazione artistica di cui sei co-protagonista voglia andare a parare, dato che tenta di ricordarti che sei immerso in una società consumistica, “pensata” dai mass media e composta da tanti consumatori compulsivi che, come te, non sanno più cosa vogliono davvero e non riescono a vivere realmente nel mondo.
Certamente dapprincipio il “gioco” cui stai partecipando ti coinvolge totalmente (sei attento a quello che devi dire, cerchi di non sbagliare, ecc…); dopo poco tempo (e per fortuna) capisci come funziona la macchina ludico-teatrale di Guruguru, riesci a padroneggiarla maggiormente e, magari, a boicottarla (ad esempio non rispettando il tuo turno di battuta o concedendoti il lusso di guardare l’orologio).
Un’immersione totale nella performance seguita da uno straniamento, dunque: non so se quest’ultimo sia ciò che il regista ricercava in sede di spettacolo. Non credo. Certamente, però, l’acquisizione di una maggiore consapevolezza di se è il fine ultimo che, dentro e fuori dal teatro, un’esperienza di questo genere deve ottenere.
Resta un ultima questione: quello di Hampton voleva essere un esperimento che, per definizione, avrebbe dovuto ingenerare in ogni spettatore uno stato di alienazione e disorientamento. Che dire allora dei miei tentativi di boicottare la performance e dello scetticismo che mi ha accompagnata per 30 minuti su 50?Esperimento fallito…?

Giulia Taddeo

venerdì 11 giugno 2010

Brat, il ragazzo vestito di bianco

Brat (fratello), cantieri per un'opera rom
Napoli Teatro Festival 10 giugno 2010

Bisogna dirlo: questi ragazzi sono bravi. “Tengono la scena”, per usare un’espressione cara al gergo del teatro. Ma è la verità. Con “Brat”, spettacolo che il regista leccese Salvatore Trimacere ha allestito a seguito di un lungo workshop insieme a un gruppo di ragazzi rom, ci troviamo (per 60 minuti) di fronte a un congegno scenico assolutamente funzionante.
Lo dicevano già i registi e teorici dell’inizio del ‘900: il ritmo è ciò che garantisce la riuscita dello spettacolo e Brat sembra esserne la prova lampante. Tanto più che in scena non ci sono solo attori professionisti.
Ma è proprio la dinamica serrata dell’azione scenica a consentire alla storia, ispirata all’Opera del mendicante di John Gay (e non troppo originale in verità), di dipanarsi come una sorta di cabaret dal sapore brechtiano da un lato e quasi da festa zingara (ma con evidenti innesti di matrice metropolitana) dall’altro.
Soggetto: un uomo ricco e mascalzone non accetta di dare in sposa la propria figlia a Brat, giovane rom colpevole di piccoli reati. Riesce a farlo uccidere, ma non prima che egli riesca e dire: se siamo noi piccoli delinquenti il problema, che dire allora dell’economia, della politica, dei mass media? Evidenti le allusioni al problema della discriminazione e demonizzazione del diverso, ben rappresentato, chiaramente, da un gruppo proveniente da un’etnia così bistrattata come quella rom.
Ma non è questo che convince. Ci lasciamo piuttosto sedurre dall’estrema disciplina (che poi è il contraltare del ritmo cui accennavo prima) con cui gli attori fanno in modo che in scena prenda vita un mondo di ladruncoli, prostitute e bande di strada, il tutto in maniera sempre colorata, dinamica (le danza-dalla break dance, al folklore, agli stacchetti di sapore televisivo- è il vero leitmotiv dello spettacolo) e con un commento musicale rigorosamente dal vivo.
Quasi inevitabile che tutto questo sfoci in un momento di vera festa. Niente e applausi e ringraziamenti da professionisti consumati nel finale. Meglio trascinare regista e spettatori in scena, in un’ultima, festosissima danza.
Giulia Taddeo

Questo articolo è stato pubblicato sul sito internet del Napoli Teatro Festival:
http://www.teatrofestivalitalia.it/Napoli_Teatro_Festival_Italia_recensione_del_giorno_Brat_il_ragazzo_vestito_di_bianco-1534.2491.7.html

Omaggio alla necessità

Pan-Palazzo delle arti, Napoli
Incontro dal titolo "Perché il teatro?"
9 giugno 2010

La cultura non serve a consolare, ma a disturbare, a mettere in discussione: esordisce così Goffredo Fofi, nell’incontro dal titolo “Perché il teatro?” che lo vede protagonista assieme a Salvatore Tramacere, Davide Iodice e Emanuele Valenti.
Un intervento appassionato e al tempo stesso lucidissimo quello di Fofi, che getta lo sguardo all’ultimo trentennio della storia italiana (il periodo Craxi-Berlusconi), sottolineando come, di fronte a un lavoro che tende progressivamente a scarseggiare e a un tempo libero che invece cresce esponenzialmente, la cultura, e quindi il teatro, abbia assunto una pluralità di forme davvero smisurata.
Che uso abbiamo fatto della libertà di espressione artistica che il nostro tempo ci concede? Niente di buono, probabilmente, se la cultura tende a porsi sempre più come intrattenimento nel mare magnum di messaggi e immagini inutili che la macchina dei mass media ci lancia a ripetizione. Recuperare la necessità del fare teatro: ecco la ragione fonda che Fofi vede alla base di una seria e consapevole pratica artistica. “Le parole ingannano” dice citando Strindberg, tanto più che esistono parole che chi si occupa di teatro non dovrebbe mai usare: è il caso del termine “formazione” che per Fofi indica una volontà di ridurre l’individuo a una forma fissa (costituita da un uso sbagliato di tecniche e insegnamenti). Meglio parlare di educazione che, etimologicamente, rimanda alla capacità di tirare fuori da ognuno quanto di meglio e di unico ha da offrire, anche mediante un percorso che può essere complesso e doloroso.
E di educazione, così come Goffredo Fofi sembra intenderla, possono a buon diritto parlare gli altri tre relatori dell’incontro. Nessuno di essi è un maestro ma, forse, un ricercatore di incontri autentici, di relazioni umane, di compagni, come dice Iodice, con i quali affrontare una crisi che non è solo economica, ma anche dell’anima.
Ecco che, quindi, da questi interventi spiccano i momenti in cui, parlando dei propri progetti, i nostri protagonisti ricordano gli episodi che più li hanno coinvolti sul piano umano: dall’emozione di vedere un gruppo di giovani rom riunirsi con puntualità e professionalità per le prove di uno spettacolo (Trimacere), alla difficoltà di liberare i ragazzi di Scampia dalle logiche di competizione e prevaricazione provenienti dalla televisione (Valenti).
Il tutto nella consapevolezza che parlare di teatro sociale non ha senso, perché se il teatro non è sociale, allora non è nemmeno teatro.
Giulia Taddeo

Orizzonti d’attesa sotto tiro

Tanja Bruguera
MADRE, Museo d'arte contemporanea donna regina, Napoli
7 giugno 2010

Soirée avanguardistica ieri sera al MADRE. In verità lo “scandalo”era stato annunciato dal pomeriggio, quando si era diffuso un comunicato stampa in cui si diceva che la performance dell’artista cubana Tanja Bruguera era stata annullata causa ostracismo da parte della città di Napoli e divergenze con la direzione del museo. Tuttavia pubblico e stampa erano comunque invitati, stessa data e stesso luogo, a un incontro con l’artista. Forse qualcuno ha sperato fino all’ultimo di vedere una performance teatrale, e chissà che tale speranza non sia stata effettivamente soddisfatta. Tanja, affiancata da alcuni rappresentanti del MADRE (dissociatisi sin dal principio da quanto sarebbe stato detto) ha tenuto una conferenza stampa decisamente sui generis. Non tanto nella forma (tutto era al suo posto, dai fotografi alle bottigliette d’acqua sul tavolo) quanto nel contenuto: difficile ripeterlo con la gravità che l’artista ha saputo conferire alle proprie parole, dichiarando dall’inizio alla fine che si riferiva a fatti realmente accaduti. In breve, la notte tra il 2 e 3 giugno Tanja, rientrando nel proprio hotel, avrebbe sentito una voce che l’ammoniva circa la sete di ricchezza e l’egoismo imperanti nella nostra società, ripentendo addirittura le parole pronunciate da Papa Woytila “totus tuus”. Questo episodio, per cui la stessa Tanja dichiara di provare imbarazzo, è stato la causa dell’annullamento dello spettacolo, dal momento che sembra aver mandato letteralmente in crisi l’artista, la quale, peraltro, sembrerebbe piuttosto indifferente a questioni legate alla spiritualità e alla religione.
Inutile dire le reazioni scatenatisi in sala: l’atteggiamento prevalente è stato quello di un ironico scetticismo, generato dalla consapevolezza di trovarsi di fronte a una provocazione ben riuscita. Eppure, se di performance in fondo si è trattato, un risultato l’ha ottenuto: al di là del disincanto complessivo e dello sdegno di chi ha gridato alla pagliacciata, c’è stato chi ha accolto quella di ieri come uno dei lavori meglio riusciti della Bruguera, perché sorretto da un messaggio etico fortemente sentito.
Come dire, se compito della provocazione è quello di scaldare gli animi e arrivare a dividerli profondamente, non possiamo non dire che l’obiettivo è stato raggiunto.
Giulia Taddeo

mercoledì 9 giugno 2010

Un corpo, una danza

ME(Mobile/Evolution)di Claire Cunningham
Napoli Teatro Festival
6 giugno 2010

Un percorso di crescita attraverso il dolore, quasi da romanzo di formazione: sembra essere questa la parabola descritta da ME (Mobile/Evolution), spettacolo di cui Claire Cunningham (danzatrice costretta a muoversi con le stampelle dopo un incidente in bicicletta e una diagnosi di osteoporosi) è l’io parlante e danzante.
Una storia divisa in due momenti, uno per scendere all’inferno, l’altro per tentare, con tenacia infaticabile, di ritornare in superficie.
Un groviglio di stampelle sparse sul palco costituisce una sorta di selva oscura ospedaliera, e, secondo l’esempio del più celebre dei viaggi fra mondi, è proprio dalla selva che si parte. Ogni stampella, ci racconta Claire tra ironia e amarezza, ha le sue caratteristiche e sembra quasi impossibile trovarne una abbastanza comoda e sicura. Ma, soprattutto, ogni stampella è stata una compagna per un periodo della sua vita, talvolta rischiando di farla cadere, talaltra lacerandole il braccio a causa di un’impugnatura troppo rigida, ma sempre costringendola a camminare a testa bassa per fare attenzione, come afferma lei stessa,“a dove appoggiare i piedi, o meglio, le stampelle”.
Eppure Claire un modo per alzare la testa riesce a trovarlo: se, infatti, lo spettatore più cinico e smaliziato poteva fino a quel punto lamentare un indugio eccessivo sulla questione della malattia, ecco che tale insinuazione viene prontamente smorzata.
La parabola cui si faceva riferimento all’inizio, infatti, è destinata a salire e la Claire-ammalata si trasforma nella Claire-danzatrice. Tutù nero, due stampelle legate ai piedi e due saldamente impugnate con le mani, la performer (stavolta squisitamente ironica) si lancia dapprima in una sequenza di danza classica (col piglio deciso e altezzoso che appartiene allo stereotipo della danse d’école), per scivolare addirittura nel tip tap sulle note di “Singing in the rain”.
Dimostrazione di capacità tecniche codificate nonostante l’handicap? Non direi. Si tratta piuttosto della presentazione di un itinerario personale, il cui interesse per lo spettatore non risiede nell’eccezionale e indiscutibile forza d’animo della protagonista. Quello che forse rimane di questo spettacolo è l’esito squisitamente artistico che il percorso di Claire ha prodotto, vale a dire l’acquisizione di una qualità di movimento unica, caratterizzata da grazia e leggerezza impalpabili. Grazia e leggerezza comunque sui generis, se è vero che Claire non vuole volare ma continuare orgogliosamente ad “arrampicarsi”.
Giulia Taddeo (Premio Lettera 22)

Questo articolo è stato pubblicato sul sito internet del Napoli Teatro Festival:
http://www.teatrofestivalitalia.it/Napoli_Teatro_Festival_Italia_recensione_del_giorno_Un_corpo_una_danza-1534.2453.7.html

lunedì 24 maggio 2010

Un approccio alla critica


Tiberia De Matteis
La critica teatrale
Come si analizza e si recensisce uno spettacolo
Gremese Editore

Il testo di Tiberia De Matteis sulla critica teatrale, è, come si evince dal sottotitolo, una sorta di piccolo manuale per il giovane critico alle prime armi. Un libro chiaro e semplice che vuole dare un'idea generale del teatro e degli elementi di cui si compone, attraverso cinque sezioni rispettivamente dedicate al testo, all'attore e il personaggio, al regista, al palcoscenico e alla valutazione critica, che poi è il punto focale del discorso.
L'autore fa riferimento al teatro mimetico, in cui la parola predomina e dice tutto, supportata da luci, musiche, scenografia. L'idea di fondo, dunque, è quella del teatro come rappresentazione.
Partendo da una concezione drammaturgica legata all'allestimento, De Matteis spiega nei dettagli le caratteristiche del testo drammatico che risultano essere un po' troppo esemplificate, per arrivare a parlare dell'immaginario del drammaturgo che crea i personaggi, visti come figure autonome dotate di una vita propria.
Ho fatto l'esempio della sezione sul testo, ma questa concezione della rappresentazione come vita da vivere e rivivere in scena si riscontra in tutte le altre sezioni del libro, restituendo al lettore un punto di vista unico sull'argomento.
A riprova di questo, nella parte dedicata all'attore e il suo personaggio, si parla esclusivamente di due metodi di recitazione: quello della reviviscenza di Stanislavskij e dello straniamento brechtiano, che, nella contemporaneità, non possono più essere utilizzati in un senso così schematico.
Nel corso del libro, l'autore fa un breve excursus storico sulla nascita-evoluzione in senso moderno della regia, citando alcuni registi come i Meininger, Stanislavskij, Mejerchol'd, Craig e ricorrendo, inoltre, a esempi di spettacoli storici, come “Arlecchino servitore di due padroni” diretto da Strehler.
De Matteis parla di una regia la cui potenza risiede nel lavoro con gli attori e sulle loro personalità che porta a grandi risultati, dietro ai quali si cela una grande tecnica.
Il discorso sarebbe molto più articolato e cercare di esemplificare il teatro per avvicinare un lettore giovane alla critica, rischia di portare a fraintendimenti legati a una concezione banale dell'esperienza teatrale.
Per quanto riguarda l'ultimo capitolo sulla valutazione critica di uno spettacolo, che dovrebbe essere l'argomento centrale del testo, l'autore ci parla di come essa viene comunemente giudicata, ovvero con una certa diffidenza e paura nei confronti di un atteggiamento troppo solito alle stroncature.
In realtà, sostiene De Matteis, il critico dovrebbe essere una persona che ama il teatro e che ha fatto della propria passione un mestiere e prosegue affermando che un atteggiamento distruttivo gratuito è molto controproducente.
Dopo aver dato consigli su come scrivere una recensione, viene ricordata la vera funzione di chi scrive: decodificare in modo oggettivo uno spettacolo al fine di renderlo leggibile a tutti.
E' ovvio che l'opinione del critico deve emergere e, anche se le stroncature gratuite a volte sono eccessive, un po' di cinismo non guasta, aggiungerei io. Anche questo capitolo scade in una schematizzazione sterile che rende il testo leggero, consigliabile a ragazzi molto giovani che si avvicinano al teatro, ma assolutamente non esaustivo e non rispecchiante la vera essenza teatrale.
Marta Franzoso

domenica 23 maggio 2010

Il critico teatrale fra vocazione e mestiere


Questo fantasma. Il critico a teatro.
Andrea Porcheddu, Roberta Ferraresi
Edizioni Titivillus

Andrea Porcheddu, critico teatrale e giornalista, nel suo ultimo libro:“Questo fantasma. Il critico a teatro” indaga gli spazi a cui il critico teatrale ha il dovere di porre attenzione, per ampliare una lettura del fatto teatrale, guardare al di sotto e al di sopra di questo.
Ciò che precisa fin dall’inizio Porcheddu è l’importanza da parte del critico di formulare un giudizio, pena la mancanza di critica stessa.
Il libro è articolato in cinque capitoli, ogni capitolo affronta una determinata area tematica: la critica, il soggetto, il segno, la società, la contemporaneità teatrale.
Ogni capitolo offre una duplice visione: storica e critica, quest’ultima supportata da citazioni di altri critici e teorici.
Lo studioso interrogandosi sul valore della critica teatrale, sulla sua efficienza, attraverso le parole di Micheal Walter e Emilio Garrone, afferma che l’attività critica corrisponde a una certa maniera di stare al mondo, di esperire la vita, di assistere a mutamenti politici e sociali; attraverso tali consapevolezze il critico può “collocarsi nel o in fronte al teatro”
Compito del critico, afferma Porcheddu, è quello di portare alla luce, svelare determinate realtà che da lui sono esperite, analizzare lo stato di alterità che è posseduto da ogni oggetto concreto.
Attraverso un accostamento con le istanze freudiane del gioco di opposizione fatto dai bambini Fort-Da, vicino/lontano (gioco attraverso il quale i bambini fanno sparire degli oggetti con cui giocano, per poi andarli a recuperare, farli riapparire), lo studioso propone una visione del critico che come il bambino gioca con le immagini che gli si presentano, chiamandole in vita oppure gettandole nuovamente nell’ombra
Un’altra visione dell’essere critico è quella offerta da Taviani, definita come “osservazione partecipante”, idea che supera il concetto di lontananza prima esposto; secondo Taviani e Porcheddu, il quale sembra abbracciare più questa istanza, il critico si colloca dentro l’opera d’arte, la incontra nel suo territorio e nella sua vita.
Alla stessa maniera Flaiano parla dell’incontro del critico con lo spettacolo come un innamoramento: “mi sorprende di non saper giudicare uno spettacolo se non come una persona viva.,che con tutti i suoi pregi può essere detestabile, oppure amabile per i suoi difetti”.
L’attività del critico teatrale, spiega Porcheddu, fa anche i conti con la vita personale del critico stesso; ricostruendo ciò che ha visto, rielaborandolo, attraversa anche la sua esperienza di spettatore e di essere umano, con le sue emozioni e pensieri, guarda lo spettacolo e riguarda anche se stesso.
In cosa consiste quindi la critica teatrale secondo Porcheddu? E’giudizio che va oltre la memoria, oltre lo scavo di sé e dell’altro Lo studioso passa in rassegna diversi critici fra i quali D’Amico e Marino, attraverso le parole di D’Amico evidenzia come prerogativa del critico non sia solo quella di conoscere il testo a cui lo spettacolo fa riferimento ma anche quella di conoscere il lavoro di attori e registi, seguirne le prove, attraversarne i processi; con le parole di Marino, Porcheddu pone l’attenzione sulla necessità da parte del critico di misurarsi con limitazioni interne ed esterne: proprie inclinazioni personali, i propri gusti e disgusti, liberarsi da tutte le costrizioni che racchiudono la recensione per ritrovarla rinnovata.
Non bisogna comunque dimenticare che il critico essendo un giornalista ha il dovere in quanto tale di raccontare un fatto, ovvero il fatto teatrale, rispondendo alle classiche 5W del giornalismo; deve rispettare, in quanto giornaliste ristrettezze di spazi del giornale e lottare inoltre con l’immediatezza.
Porcheddu lamenta la marginalità a cui è relegata la critica contemporanea e una progressiva scomparsa del pensiero complesso causata da una politica culturale che premia ciò che Michele Serra chiama “pensiero semplificato”; la critica non trova più i propri spazi nei giornali, è ridotta, a causa delle ristrettezze redazionali, a diventare pensierino bonsai, articolo in appendice..
Porcheddu esamina la centralità del soggetto nella contemporaneità, dal teatro di narrazione, al teatro dei non-attori e a moltissime svariate forme del teatro contemporaneo che non possono fare ameno di esibire il sé come protagonista, andando verso il collasso del personaggi.
Porcheddu si interroga su come il critico deve porsi nei confronti di tali spettacoli, spaccati di vita; attraverso la recensione su “Questo buio feroce” di Delbono di Maria Grazia Gregori, scorge come elemento primario la componente emozionale.
Ciò che il critico sostiene lungo il corso del manuale è una continua volontà da parte dell’attore contemporaneo di affermare un proprio sé, un proprio corpo-io, che non rimanda ad altro che a se stesso.
Porcheddu cita RenatonPalazzi, in merito a un’analisi fatta dal critico alle nuove realtà teatrale, fra le quali annovera i Motus, Teatrino Clandestino, Accademia degli Artefatti; “sono fenomeni teatrali che colpiscono per la loro molteplicità di stili e di linguaggi, sempre in continua rinnovazione. Comunque la si pensi è in atto un evidente spostamento di equilibri”, un rinnovamento della comunità teatrale che vede crescere il pubblico di queste giovani tendenze e dall’altra parte assiste a una costante diminuzione del pubblico del teatro di regia.
Alla luce di questo plurilinguismo contemporaneo il critico ha dunque il diritto-dovere di saper cogliere le diversità e raccontarle, permettersi di imboccare delle strade dalle quali ne proverranno altre, accompagnare le “vite che sbocciano ovunque”
Ilaria Palermo